A pochi anni dalla loro creazione, gli Studi di György Ligeti sono già entrati a far parte del repertorio di moltissimi pianisti, più di ogni altro brano contemporaneo. Le ragioni di questo fenomeno sono legate alla "pianisticità" della scrittura di Ligeti e alla sua affascinante concezione del suono, che pone stimolanti problematiche e paradossi intellettuali.
In generale, tutti i suoi Studi sono basati su precise geometrie, riscontrabili già in partitura dal punto di vista grafico, ma ancor più evidenti nei movimenti, spesso simmetrici o speculari, che le mani devono compiere. Spesso, inoltre, proprio la specifica conformazione della tastiera costituisce un punto di partenza per generare ulteriori reciprocità o parallelismi spaziali.
L'affascinante difficoltà di questi brani consiste essenzialmente in una sorta di labirinto, dato dalla complessa polifonia che scaturisce automaticamente dal progetto geometrico di partenza. Può accadere così che le due mani del pianista debbano controllare quattro voci ognuna con diverse connotazioni metriche, e tutte regolate secondo un articolato gioco di incastri. Ciò potrebbe dirsi, in realtà, per qualsiasi brano contrappuntistico. La differenza è che in Ligeti il contrappunto genera due fenomeni molto particolari: il rapporto non più convergente tra ciò che il pianista suona e ciò che egli ascolta, e la consequenziale, paradossale coesistenza di due (o più) mondi sonori paralleli e sovrapposti, entrambi apparentemente reali eppure diversi. Si tratta pertanto di un contrappunto al quadrato, anzi, al cubo, in cui la sovrapposizione di voci con diverse caratteristiche genera disegni simmetrici o spiraliformi, o comunque dotati di particolari reiterazioni, creando singolari effetti illusori che spiazzano l’orecchio dell’interprete e dell’ascoltatore.
Dal punto di vista squisitamente metrico, uno stimolante antecedente ligetiano è rappresentato dalla scrittura del tardo Chopin. Un chiaro esempio è riscontrabile alle battute 175-176 della Ballata op. 52: siamo qui in presenza di tre voci, ognuna con un proprio diverso metro, riconducibile ai numeri tre (voce centrale), quattro (voce acuta) e nove (mano sinistra), considerando come unità la semicroma in terzina. Essi trovano un punto d’incontro dopo ben 36 note (36 sedicesimi di terzina, quindi due battute di 6/8), essendo 36 il minimo comune multiplo di 3, 4 e 9. Naturalmente (per fortuna!) di solito gli interpreti chopiniani (me compreso) non sentono l’esigenza di un simile calcolo per eseguire appropriatamente questo passaggio (che, anzi, richiede un’atmosfera il più possibile sospesa e sognante). Allora, ci si chiede, è davvero necessario che l’interprete degli Studi di Ligeti abbia una totale coscienza dei loro meccanismi geometrico-poliritmici? Certamente in molti degli Studi la cifra poetica dell’esecuzione (ottenuta soprattutto con una lettura libera e “ispirata”) ha la priorità sull’esattezza matematica della realizzazione, la quale peraltro rischierebbe di limitare la freschezza del fraseggio. Va notato, inoltre, che, alla luce dell’esperienza esecutiva degli Studi, raramente è possibile che il pianista abbia in mente le reale suddivisione metrica scritta in partitura. Ligeti era certamente a conoscenza di questo problema, tanto che in alcuni casi specifica che le linee di battuta non hanno alcuna valenza di indicazione metrica o articolatoria, ma sono state indicate solo per aiutare il pianista ad “orientarsi”. È naturale, peraltro, che l’interprete si crei un proprio schema funzionale all’efficacia dell’esecuzione. Questo schema potrà differire anche sensibilmente da quello di Ligeti, e in ogni caso non dovrà mai emergere all’ascolto.
Ulteriori elementi di riflessione a tale proposito possono individuarsi nel confronto tra gli Studi per pianoforte di Ligeti e quelli per player piano (il pianoforte a rullo, antenato del moderno Yamaha “Disklavier”) di Conlon Nancarrow. Non è un caso che Ligeti abbia dichiaratamente ammesso di aver colto molte delle idee compositive degli Études dai lavori di Conlon Nancarow, che compose molti brani per pianoforte a rullo scrivendo non già sulla tradizionale partitura cartacea, ma direttamente sul rullo, tracciando su di esso particolari disegni geometricamente complessi. Il rapporto tra suono e geometria trova negli Studi di Ligeti un affascinante anello di congiunzione, in cui, per di più, l'interprete assume un ruolo fondamentale. Se, infatti, Nancarrow diffidava delle imperfezioni e dei limiti tecnici del pianista umano, preferendo ad esso l’inesorabile meccanicismo del player piano, dall'altro lato Ligeti, specialmente nel primo libro dei suoi Studi, sfrutta proprio le imperfezioni e le "asimmetrie" del sistema percettivo dell'uomo e della sua struttura fisica e nervosa per trovare un valore aggiunto alla qualità già eccelsa della composizione scritta. Se, dunque, da una parte può essere utile all’interprete una consapevolezza dei meccanismi combinatori che sono alla base degli Studi, dall’altra è importante che il pianista non si identifichi troppo in un esecutore-robot come il player piano, altrimenti rischia di perdere alcune possibilità espressive (riservate all’imperfetto esecutore umano) che Ligeti ha previsto.
Un esempio di questo concetto è riscontrabile nello Studio n. 3, “Touches bloquées”, in cui quello che è un fenomeno spesso associato ad un grave difetto del pianoforte, vale a dire un tasto che rimane abbassato e non risale alla propria posizione naturale, diventa il nucleo da cui prende forma un singolare gioco di contrasti tra due percezioni parallele della stessa musica: quella, appunto, tattile, caratterizzata dal blocco del tasto (o dei tasti) prescritto in partitura, e quella uditiva, che presenterà uno strano ritmo zoppicante causato dall'assenza del suono del tasto bloccato, pur in una figurazione che sulla carta sembrerebbe regolare.
Naturalmente questa gustosa divergenza tra tatto e udito sarà percepibile solo dall'interprete: le sue dita compiranno movimenti regolari, ma alcune si vedranno improvvisamente “mancare la terra sotto i piedi”, come quando si scendono le scale e ci si imbatte in gradini molto più profondi dei precedenti. L’esecuzione, pertanto, viene indubitabilmente condizionata dal suddetto sfasamento, che anche l'ascoltatore avverte chiaramente. Si potrà naturalmente obbiettare che il pianista, dopo la prima lettura della partitura, saprà già benissimo quali sono i tasti bloccati, e dunque non ci sarà un fattore sorpresa nella sua esecuzione. È vero. Ma è innegabile che la totale separazione tra il movimento delle dita che leggono una scala cromatica regolare e il risultato acustico dato dai tasti bloccati creino un effetto non riproducibile in alcun modo con soluzioni tecniche alternative. Se, infatti, Ligeti avesse scritto “sol b, fa, pausa, mib, pausa, re b, pausa, si” al posto di “sol b, fa, mi (bloccato), mib, re (bloccato), re b, do (bloccato), si”, il risultato sarebbe stato un altro, proprio in virtù di una diversa preparazione psicologica del pianista ad affrontare il “buco” costituito dalle pause: come se, ritornando al paragone con la suddetta scala, noi sapessimo in anticipo dei gradini più bassi, essendo quindi già preparati alla maggiore distanza che le gambe dovranno percorrere. Naturalmente l’idea dei tasti bloccati, e più indirettamente dei “suoni non suoni” ha origini molto lontane. Se l’antecedente diretto, come lo stesso Ligeti dichiara nella partitura, è costituito dal saggio di Henning Siedentopf, “Neue wege der Klaviertechnik” (1973), si possono già reperire tracce di questa concezione nella opere di Robert Schumann, e in particolare nelle Variazioni Abegg op. 1. Nella cadenza prima dell’ultimo ritorno del tema, Schumann adopera una scrittura per sottrazione, facendo emergere il tema non con la percussione del relativo tasto, ma con il rilascio di altri tasti. Infatti egli prescrive di rilasciare uno alla volta i tasti dell’accordo costituito da tutte le note del tema (la, si b, mi, sol, sol) a partire dal più grave, facendo così emergere la risonanza della nota che di volta in volta rimane “scoperta”. Ma quando si tratta di ribattere l’ultimo sol del tema, Schumann si trova di fronte ad un paradosso: rilasciare lo stesso tasto che dovrà continuare a risuonare, ossia togliere il suono del medesimo suono che dovrà restare udibile. Come dire: 1 - 1 = 1. Eppure se la cava egregiamente grazie a due singolari espedienti, che per certi aspetti anticipano l’estetica ligetiana. Il primo è costituito dall’accento sul secondo sol. Ci sono accenti anche nelle precedenti note del tema (pur trattandosi sempre di note tenute), ma in questo caso l’accento è doppiamente utopistico, essendo posto addirittura sulla seconda parte di una nota tenuta, senza la presenza di altre note. Il secondo espediente, consequenziale al suddetto accento, del quale costituisce in pratica l’eterodossa realizzazione, è dato dal pedale di risonanza che Schumann prescrive di abbassare in corrispondenza dell’utopico ribattere del sol. Si ottiene così un aumento della risonanza del sol medesimo (accostato all’eventuale “botta” percussiva che il pianista potrebbe dare con una pressione volutamente esagerata del pedale), ma soprattutto si aiuta il pianista (e il lettore della partitura: un po’ meno il semplice ascoltatore) ad immaginare un suono altrimenti impossibile e al di fuori di ogni logica terrena. L’interesse di questa singolare trovata sta nella divergenza che viene a crearsi tra quattro concezioni sonore parallele dello stesso suono: il sol immaginato da Schumann, il sol scritto in partitura, il sol suonato dal pianista e il sol percepito dall’ascoltatore. Schumann è tornato ad occuparsi di “utopie pianistiche” e di suoni impossibili nell’Humoresque op. 20, e per la precisione nell’episodio “Hastig”, in cui la voce intermedia presenta l’eloquente epiteto di “Innere Stimme”: si tratta, in effetti, di una linea melodica scritta in partitura, che però non va suonata dall’esecutore, ma soltanto letta e vissuta nell’intimo, senza il bisogno di una parallela percezione acustica. Questo episodio viene successivamente ripetuto senza alcuna variazione, tranne che nella voce non suonata. Il concetto di Innere Stimme è certamente molto vicino alle esperienze vissute dall’interprete che si cimenta con gli Études di Ligeti, tuttavia c’è una differenza di fondo che va evidenziata. In pratica, chi esegue l’Humoresque si trova ad interpretare (e a comunicare all’ascoltatore) una linea scritta in partitura senza poterla suonare, mentre chi esegue gli studi di Ligeti si trova a far sentire voci e moduli ritmici che non crede di suonare, poiché scaturiscono automaticamente dalle sovrapposizioni di altri elementi, senza che l’interprete sia chiamato a controllarle.
Va infine detto che proprio il rapporto con l’incontrollabile e con il suono “negativo” (nel senso fotografico del termine) rappresenta l’aspetto più innovativo e, paradossalmente, più “pianistico” presente negli Studi di Ligeti. Proprio per questa ragione i suoi Studi hanno aperto la via a molti ulteriori possibili sviluppi del linguaggio pianistico che ancora non sono stati del tutto esplorati.
Roberto Prosseda