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Intervista con Francesco Consiglio su Pangea.it, 3/2019


Coup de théâtre. Ho incontrato un pianista ironico. Anzi, no: ironico non basta. Roberto Prosseda possiede una virtù rara, sublime, che ne fa uno dei più grandi divulgatori dell’arte pianistica. E sapete cosa intendo? Un’incapacità. Sì, avete udito bene: l’incapacità di prendersi troppo sul serio. Ciò può forse spaventare, soprattutto in un mondo paludato e poco portato ai cambiamenti come quello della musica cosiddetta seria. Ma se avrete occasione di assistere alle sue lezioni-concerto sull’interpretazione musicale in cui sfida Teotronico, un robot-pianista, vi accorgerete di quanto divertente e istruttivo possa essere l’insegnamento della classica. Io mi sono molto divertito e vi invito ad assistere alle sue prossime performance (il 7 aprile il M° Prosseda è al teatro Sociale di Camogli). Nel frattempo, mettiamo un po’ da parte gli arti metallici e i neuroni sintetici (se siete curiosi lo trovate qui: www.teotronico.it) e godiamoci quest’intervista.

Nel libro Il linguaggio dello spirito, breve storia della musica classica, il compositore e musicologo Jan Swafford, racconta un divertente aneddoto che testimonia la folgorante vitalità della musica al tempo di Beethoven: uno spettatore, dopo avere sentito la Quinta, era uscito dalla sala così entusiasta e agitato, che tentando di mettersi il cappello, non riusciva a trovare la testa. Questo stordimento al cospetto di musiche di straordinaria e innovativa bellezza oggi è molto difficile da provare, se non impossibile, come se si fosse esaurita la possibilità di scoprire nuovi territori di suono e di emozione. La colpa è dei compositori? Del pubblico? O dell’intera società? È triste pensare che la musica abbia esaurito il proprio originale potenziale comunicativo e la capacità di stupire.

Io non lo penso, infatti! Oggi è assolutamente possibile provare meraviglia ascoltando o suonando un capolavoro di Beethoven o del suo tempo: è quello che cerco di far accadere nei miei concerti… È pur vero che lo sguardo di molti “professionisti della musica” è limitato a pochi brani di repertorio: spesso interpreti e organizzatori preferiscono insistere nel riproporre musiche arcinote (e magari eseguite in maniera prevedibile), piuttosto che avventurarsi in repertori desueti e degni di essere riscoperti. Ma questa tendenza, ancora prevalente, è stata la mia fortuna: basti pensare alla quantità di composizioni di Felix Mendelssohn ancora inedite e ineseguite! E ci sono ancora tanti autori (anche italiani) che attendono una meritevole riscoperta. Del resto, l’aggettivo “classica”: è un po’ fuorviante, perché rimanda a qualcosa di cristallizzato, di chiuso in una sua forma fissa e appartenente al passato. In realtà tutta la musica classica è stata anche “contemporanea”, ha avuto la sua “prima esecuzione” e ha stupito gli ascoltatori dell’epoca. E anche oggi è “contemporanea” a noi, perché parla alle nostre orecchie, alla nostra cultura. Dipende anche da noi interpreti far sì che anche oggi la forza innovatrice e rivoluzionaria dei grandi capolavori del passato rimanga intatta e arrivi agli ascoltatori come se si trattasse della prima volta che ascoltano quel brano. Mentre spesso siamo noi musicisti i primi a volere riproporre visioni interpretative già viste, e a leggere la musica non tanto partendo dalla comprensione approfondita del testo e del suo contesto, ma riciclando interpretazioni altrui (della propria “scuola di appartenenza”, o della propria incisione preferita). C’è anche da dire che la presenza del disco e delle incisioni ha avuto un’influenza notevole nel modo in cui noi interpretiamo e ascoltiamo la musica, e nel definire le nostre aspettative e i nostri riferimenti. Oggi, quando un interprete affronta un brano, sia che lo incida, sia che lo suoni in concerto, sa bene che di quell’interpretazione resterà traccia, e che essa sarà giudicata e confrontata con tante altre. Questo rischia di limitare l’immaginazione e la voglia di prendersi dei rischi, ma, rovesciando il punto di vista, può anche essere uno stimolo a far meglio e proporre letture diverse rispetto ai riferimenti già noti. Da ultimo, c’è da riflettere sul format con cui oggi la musica classica è proposta in concerto: prima di Liszt, nessun pianista aveva osato proporre un’ora di musica di fila per solo pianoforte a platee più grandi di un salotto aristocratico. Il recital pianistico, inventato appunto da Liszt nel 1839, non è oggi forse il format ideale per proporre la musica dal vivo al pubblico attuale. Dobbiamo recuperare una comunicazione diretta tra interpreti e pubblico, dare agli ascoltatori strumenti per comprendere i codici della musica e saperla quindi “sentire” con maggiore consapevolezza e partecipazione emotiva. E forse proprio chi la musica la suona e la studia ha la possibilità (e, oso dire, il dovere) di rimboccarsi le maniche e aiutare gli ascoltatori (vecchi e nuovi) a gioire per una condivisione più profonda e vissuta.

C’è una grande differenza tra ascoltare musica con l’iPod, comodamente seduti sul divano, e recarsi in una sala di concerto assaporando il gusto di essere circondati da persone che condividono la nostra stessa passione. E questa differenza non sta solamente nell’intelligenza, nella cultura e nella capacità di cogliere l’essenza di una musica, ma anche nel preferire un tipo di fruizione rispetto a un’altra. Lei quale preferisce?

La musica può essere fruita in tante modalità diverse, tutte gratificanti, per aspetti diversi. Nulla può sostituire, secondo me, l’esperienza totalizzante di un concerto dal vivo: per l’estemporaneità dell’evento, il non sapere cosa succederà un momento dopo, e per il fatto di trovarsi fisicamente nello stesso luogo in cui la musica prende vita, in cui si può entrare in sintonia con gli interpreti in tempo reale, e divenire parte attiva del concerto stesso. Ma ci sono anche i lati meno positivi dell’ascolto dal vivo: le possibili distrazioni causate dal vicino di sedia, un’acustica non sempre ottimale, il fatto che gli stessi musicisti possano non essere perfettamente a loro agio sul palco, per qualsivoglia ragione (e anche noi ascoltatori potremmo essere non pronti per ascoltare quel tipo di musica in quell’esatto momento). L’ascolto delle incisioni è ben altra cosa: un po’ come telefonare ad un amico, piuttosto che incontrarlo di persona. Ma a volte il fatto di trovarsi nel nostro ambiente ideale di ascolto, e di poter scegliere cosa ascoltare, come e quando farlo, può metterci in condizione di percepire più a fondo il contenuto musicale. Se parliamo poi delle incisioni in studio, si tratta di interpretazioni spesso molto meditate da parte dei musicisti, in cui non vi sono delle variabili accidentali che possano compromettere le loro intenzioni espressive. Su questo aspetto, a ben vedere, ci sarebbe da scrivere un intero saggio, però. Mi limito a lanciare qualche semplice quesito: siamo sicuri che una incisione approvata dall’artista e studiata nei minimi dettagli sia il miglior modo di comunicare quella visione interpretativa al pubblico? Quanto interferiscono le varie tecniche di ripresa di riproduzione del suono nel restituire con fedeltà le intenzioni musicali di chi suona? Se l’editing e la scelta del montaggio è stata effettuata da un direttore di produzione e non dal musicista che suona, di chi è la paternità dell’incisione? Io credo, non so se a torto o a ragione, che l’esperienza di un ascoltatore che è anche un esecutore sia diversa da quella di uno studioso o di un semplice appassionato. Per un musicista professionista, ascoltare un collega è sempre un’esperienza speciale. Diceva, non senza ironia, Arthur Rubinstein: “Non vado ai concerti degli altri pianisti: se suonano male, mi dispiace per loro, se suonano bene mi dispiace per me”. È vero, in effetti, che siamo sempre molto condizionati dalle nostre posizioni estetiche. Quando ascolto altri musicisti cerco sempre di essere un ascoltatore sereno, di non guardare a dettagli tecnici che rischiano di farmi perdere di vista la musica stessa. Ma non è facile. Spesso, discutendo con altri musicisti, noto come artisti di alto e pari valore e cultura possano avere opinioni del tutto opposte. Io stesso spesso scopro il valore di alcune interpretazioni solo dopo ripetuti ascolti, ribaltando i miei giudizi. È il fascino della soggettività dell’ascolto.

Nell’immaginario collettivo, la musica classica si è trasformata in qualcosa di complicato che solo pochi esperti sono in grado di comprendere. Chi l’ascolta si fa vanto di un’irragionevole pretesa di superiorità intellettuale e tace artatamente che la classica, pur richiedendo uno sforzo maggiore da parte dell’ascoltatore rispetto ad altri generi, non necessita solo di essere decrittata, ma ascoltata e vissuta.

Concordo in toto, tranne sul fatto che chi ascolta la musica classica si faccia necessariamente vanto di una pretesa superiorità. Questo dipende dai singoli, ma non è così per tutti. È vero che in Italia a volte si parla e si scrive della musica classica in modo affettato o inutilmente accademico. Negli ultimi anni però questa tendenza si è molto ridotta, e ci si sta avvicinando al modo anglosassone di parlare e scrivere di musica, più schietto, diretto, senza inutili orpelli. È quello che nel mio piccolo cerco di fare con le “Lezioni di Musica” su Radio3, e anche nei brevi video al pianoforte che posto su Facebook. D’altro canto, è pur vero che la musica classica è un linguaggio complesso, e non di presta ad eccessive semplificazioni. Ciò non toglie, comunque, che come tutta la musica d’arte si tratti fondamentalmente di una “successione ordinata e strutturata di stati d’animo” (per citare una riuscita definizione di Krystian Zimerman). Quindi è importante, ad un certo punto, lasciarsi andare in un ascolto libero e non filtrato da griglie intellettuali che potrebbero limitare il coinvolgimento emotivo. E ciò vale anche per chi suona: nello studio è fondamentale approfondire ogni aspetto dell’opera e del suo contesto, e “ingegnerizzare” l’esecuzione per avere il dominio completo delle nostre azioni; ma nel momento del concerto dal vivo tutto ciò va messo da parte, e lasciato funzionare “in background”: lo studio lascia il posto alla “fase di crociera”, l’interprete non è più un ingegnere che progetta l’esecuzione, ma un pilota che si gode la traversata, lasciandosi stupire egli stesso dai paesaggi che attraversa.

Nel suo sito (www.robertoprosseda.com) ho letto che ha registrato l’integrale delle Sonate di Mozart su un pianoforte accordato con il temperamento Vallotti, un sistema raramente utilizzato nel pianoforte moderno ma molto diffuso all’epoca di Mozart. Questa particolare accordatura, oltre a rendere quelle registrazioni un unicum, mi ha fatto pensare che ogni musica dovrebbe essere suonata per quanto possibile con gli strumenti del tempo in cui è stata composta, e ogni altra interpretazione è un travisamento.

La “fedeltà” totale al testo, o alle intenzioni di un compositore, rimane un’utopia. Ogni interpretazione, per definizione e per la natura umana, è diversa dalle altre. Solo una macchina è in grado di riproporre la stessa identica lettura di uno stesso brano. La qualità di un’interpretazione non dipende, secondo me, dalla somiglianza esteriore ad un ipotetico “modello” originale, ma dalla sincerità e dall’intensità dei contenuti espressi, e dalla loro coerenza rispetto a quanto espresso dall’autore attraverso la partitura. Suonare esattamente e letteralmente quanto scritto sul pentagramma, però, rischia di essere quanto di più lontano da ciò che per me è una buona interpretazione. La partitura non è il riferimento assoluto da riprodurre, ma una via di accesso a contenuti espressivi che il compositore evoca attraverso i segni del linguaggio musicale: un riflesso (penso a Platone e al Mito della caverna). Un’indicazione di staccato, o una legatura, una successione armonica, uno sbalzo di registro sono tutti segni che rimandano a qualcos’altro: e più è preciso e vario il dizionario espressivo (e, conseguentemente, emotivo) dell’interprete, tanto più egli sarà in grado di offrire una lettura convincente e coinvolgente. Inoltre, più egli conosce i contesti culturali dell’epoca e delle tradizioni a cui la musica eseguita appartiene, e le sue origini, e il bagaglio di convenzioni e simboli che ad essa fanno riferimento, più sarà in grado di “immergersi” nella musica e di raggiungere l’ascoltatore. Quanto agli strumenti originali, anche qui stiamo parlando di un’utopia: e poi, siamo sicuri che valga la pena, qualora possibile, ripristinare esattamente le sonorità che Mozart otteneva dal suo pianoforte? Ponendo la domanda in altri termini, se Mozart oggi tornasse fra noi, cercherebbe un fortepiano di Anton Walter identico a quello che aveva lui, o piuttosto sarebbe affascinato dalle potenzialità di un pianoforte moderno, o più ancora dalle possibilità dell’elettronica? Impossibile rispondere con certezza. Ma non basta suonare su uno strumento dell’epoca di Mozart per far rivivere l’essenza della sua musica. Anche perché le nostre orecchie, la nostra cultura, le nostre abitudini di vita sono ben diverse da quelle degli ascoltatori viennesi del tardo Settecento. È però molto stimolante sapere che effetto facevano le musiche di Mozart su uno strumento della sua epoca, per comprendere le intenzioni espressive dell’autore e poterle meglio “tradurre” per le orecchie degli ascoltatori di oggi. In tal senso, anche l’accordatura può giocare un ruolo importante: l’accordatura inequabile crea differenze molto più radicali tra un’armonia e un’altra e aiuta a sentire e vivere i passaggi tra le varie tonalità in modo più profondo e differenziato.

Recentemente si è esibito assieme a un robot, TeoTronico, dotato di 53 dita azionate da elettromagneti pilotati dinamicamente e in grado di abbassare con varie gradazioni dinamiche i tasti di qualsiasi pianoforte acustico. Un divertente esperimento che ha lasciato gli spettatori nel dubbio se sia migliore l’interpretazione emozionale dell’uomo o quella infallibile ma asettica della macchina. Poiché in un prossimo futuro saremo probabilmente invasi da virtuosi di silicio, mi chiedo: un pianista che riesce a padroneggiare le diteggiature più difficili e suona con velocità e scorrevolezza, è solo per questo un buon pianista? O esistono altre imprescindibili doti che non possono essere definite senza fare ricorso alla categoria del sentimento, quella capacità spontanea di trasmettere l’essenza di un brano musicale?

Il confronto con il robot serve proprio a evidenziare le differenze tra una mera riproduzione letterale della partitura e una interpretazione. Ciò che il robot non può fare (per lo meno allo stato attuale) è di esprimere coscientemente stati d’animo attraverso la musica, e far sì che il pubblico li percepisca: cosa che invece è un elemento fondante del processo interpretativo. Ci sarebbe però da precisare cosa si intenda per “stati d’animo” (si tratta solo di reazioni chimiche che inducono una determinata sensazione?), e forse nel prossimo futuro i robot saranno in grado di evocarli imparando e copiando dalle interpretazioni umane. Ma si tratterà sempre di un compromesso. Il punto forte del robot è, invece, l’aspetto performativo: la precisione con cui, infallibilmente, mette in atto il proprio “progetto esecutivo”. Ma, a ben vedere, anche l’imperfezione umana, il potere sbagliare, è fonte di creatività e arte. Quando i robot impareranno a sbagliare, forse saranno più vicini a noi. Comunque, saper muovere rapidamente le mani con la massima precisione è una qualità del tutto inutile, se non è abbinata ad un’intenzione espressiva e poetica definita. Tuttavia oggi, anche nella didattica, si tende a volte a prediligere l’aspetto performativo (il “come suonare”) a quello interpretativo (il “cosa” suonare). Un vero pianista è prima di tutto un musicista. Il pianoforte, in fin dei conti, è solo uno “strumento”.

Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?

Nel mio computer ho una cartella nominata “progetti”: contiene oltre cento files! Dal punto di vista discografico, sono in uscita altri due CD dedicati ai Concerti di Mendelssohn, e poi vorrei continuare ad occuparmi di Mozart, affrontando il resto della sua produzione pianistica. Mi interessa sempre più anche la didattica, e sto scrivendo un libro per giovani pianisti, su “come studiare”, cercando di individuare un metodo di studio consapevole, efficace e soprattutto piacevole. Mi piace anche occuparmi di organizzazione musicale, creare occasioni di incontro e condivisione di idee, e in questo senso il mio ruolo di coordinatore artistico presso Cremona Musica International Exhibitions & Festival, è una magnifica opportunità di mettere in rete quanto di meglio e di più innovativo oggi ci sia nel mondo della musica. Sto ora pianificando una serie fittissima di eventi artistici e culturali (concerti, mostre, workshops, tavole rotonde, presentazioni di CD e libri) che arricchiranno il programma di Cremona Musica 2019 (dal 27 al 29 settembre prossimo).

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