Fortepianisti o pianofortisti?
Cosa è l'autenticità nell'interpretazione pianistica? Ogni interprete di musica classica – come anche, si presume, ogni ascoltatore – aspira a giungere al cuore del messaggio che un compositore ci ha tramandato attraverso le proprie opere. Tuttavia, la notazione su partitura lascia molti parametri poco definiti, lasciati al gusto, alla cultura, o all'estro momentaneo dell'interprete. La notazione è anche legata alle convenzioni e agli strumenti a tastiera dell'epoca, che nel Settecento (ma anche nell'Ottocento, specie nella prima metà) erano ben diversi dal pianoforte moderno: per timbro, dinamica, diversità dei registri, reattività della meccanica. L'interprete, a sua volta, è inevitabilmente condizionato dal contesto in cui si trova a suonare, dall'acustica della sala, dalla reazione del pubblico, e via dicendo. Ciò vale, a maggior ragione, per la letteratura tastieristica del secondo Settecento: anni in cui si passava gradualmente dal cembalo al fortepiano, e in cui i due strumenti spesso coesistevano. La questione sull'autenticità è, dunque, complessa e di fondamentale importanza per ogni musicista, e richiede studi approfonditi e conoscenza dei documenti e delle fonti originali di cui oggi ancora disponiamo.
A partire dal secondo dopoguerra, è stato svolto un grande lavoro di ricerca sulle convenzioni, le sonorità, le consuetudini espressive diffuse all'epoca di Haydn, Mozart e Beethoven, e, naturalmente sugli strumenti che essi suonavano. Dobbiamo essere molto grati a musicisti come Nikolaus Harnoncourt, Roger Norrington, Franz Brüggen, e, specificatamente per il fortepiano, a Malcolm Bilson, Robert Levin, Andreas Staier per il loro meritorio impegno alla ricerca del significato vero e profondo dell'espressione musicale nel Classicismo viennese (e non solo). Oggi, per ogni interprete che voglia porsi il problema, il punto di partenza della ricerca filologica è molto più facilitato grazie al loro lavoro, anche se ancora non tutti i pianisti si sono resi conto di come la pronuncia di un'articolazione o la forma di una frase possa condizionare la resa musicale (ossia poetica ed emotiva) di una composizione. In altre parole, il rischio di fraintendere il senso musicale di un'opera è dietro l'angolo, quando non si conoscano le convenzioni della notazione e le reazioni degli strumenti dell'epoca.
Anche se oggi tutti i filologi sono concordi su molti aspetti riguardanti la lettura delle articolazioni e la scelta dei tempi, esiste comunque una notevole varietà nei risultati interpretativi che partono da simili premesse “storicamente informate”. Non c'è, quindi, una verità assoluta su come si realizza un determinato abbellimento, su quale sia il tempo esatto di un Allegro o su quale sia lo strumento ideale per una determinata Sonata: confrontando le loro incisioni, è evidente come ognuno adotti un approccio ugualmente coerente con le conoscenze filologiche, eppure diverso e personale. E sono certo che lo stesso Mozart non suonava mai la stessa Sonata allo stesso modo, bensì reagiva con un naturale, creativo adattamento agli stimoli e ai risultati dati dagli strumenti che si trovava di volta in volta sotto le mani. [È pur vero che solo a partire dai primi del Novecento, con l'avvento delle incisioni, è emersa la tendenza a voler lasciare un segno indelebile nella storia della musica da parte degli interpreti.]
Ergo: i veri grandi esperti di prassi filologica, come i nomi citati, sono anche musicisti sensibili e persone di ampia cultura. E non sono mai dogmatici. Vice versa, non basta certo fregiarsi di suonare un fortepiano (magari dopo solo pochi mesi di pratica) per assurgere al ruolo di paladino dell'autenticità, né su può dire che chiunque suoni Haydn o Mozart su uno Steinway moderno sia necessariamente lontano dallo spirito autentico di questi compositori. Capita ancora oggi, purtroppo, di incappare in reazioni troppo “integraliste”, pro o contro la prassi storicamente informata: molti pianisti, spesso privi di alcuna esperienza e conoscenza delle tastiere storiche, sostengono che il pianoforte moderno rappresenti il punto di arrivo dell'evoluzione della tastiera, quasi che gli strumenti precedenti stiano allo Steinway o al Fazioli come l'uomo di Neanderthal sta all'uomo moderno. Personalmente, l'idea che il pianoforte si sia evoluto in senso costantemente migliorativo non mi pare giustificabile. Il pianoforte moderno, specie nei modelli più industrializzati, ha certamente risposto alle nuove esigenze pratiche della produzione industriale e alla necessità di essere ben udibile in sale sempre più grandi, ma ha inevitabilmente perso alcuni colori e una certa sensibilità alle minime sfumature di articolazione che uno strumento artigianale del 1820 poteva invece offrire.
Viceversa, con altrettanta saccenza, qualche paladino degli strumenti storici (magari ex pianista, ormai “pentito”) guarda con disprezzo a priori chiunque suoni Bach o Mozart sullo Steinway o sul Fazioli, dando per scontato che qualsiasi esecuzione sul pianoforte sia certamente inferiore ad un'interpretazione su strumenti d'epoca. Non è detto, invece, che uno strumento storico sia a tutti i costi il più adatto per un brano della stessa epoca. La differenza, anche qualitativa, tra strumenti “coetanei” era allora molto maggiore rispetto ad oggi (ma è ben percepibile anche tra gli strumenti moderni, in base a come vengono accordati e mantenuti), e non tutti i fortepiani attualmente disponibili sono in condizioni adeguate per le esigenze di un concerto o di un'incisione discografica: il restauro di un fortepiano è un lavoro complesso che richiede grande cura e attenzione filologica.
Tutto va, quindi, considerato con buon senso, e in base alle possibilità ed esigenze di ciascuno. Si può certamente suonare su un bellissimo Anton Walter del 1785 in una moderna sala da 2.000 posti, ma siamo sicuri che sia la scelta più appropriata? Cosa percepirà il pubblico, e quanto si perderà nel passaggio dall'interprete all'orecchio dell'ascoltatore? Nel caso delle incisioni, anche la posizione dei microfoni influisce fortemente sul risultato timbrico. La ricchezza dinamica di un fortepiano può essere còlta da microfoni sufficientemente vicini alla cordiera, che però in qualche modo potrebbero snaturare il suono stesso del fortepiano, o almeno catturarlo in modo molto diverso da come esso viene percepito da un ascoltatore seduto a 10 metri di distanza.
Durante la vita di Mozart (e ciò vale ancor più per Haydn, nato prima di lui e morto dopo), l'evoluzione del pianoforte viveva una fase di continui e rapidi aggiornamenti, e certamente ciò influenzò anche la scrittura delle Sonate, come è evidente se confrontiamo le prime Sonate con le ultime. Tuttavia, è vero anche il fenomeno inverso: spesso proprio i compositori, e Mozart in primis, sollecitavano i costruttori ad innovare i loro strumenti (basti pensare al fatto che nel 1785 commissionò ad Anton Walter un pedalpiano), così che questi fossero più adeguati alle loro nuove esigenze espressive. Chissà se negli ultimi anni della sua vita, disponendo di pianoforti più evoluti, Mozart preferisse suonare le sue prime Sonate con i pianoforti sui quali le aveva concepite, o se invece non gradisse maggiormente eseguirle sugli strumenti più recenti... Non lo possiamo sapere, ma credo che sia utile porsi queste domande.
Mi auguro, per concludere, che tutti i pianisti e gli appassionati di musica abbiano modo di avvicinarsi al mondo delle tastiere storiche e possano scoprire la grande ricchezza e varietà espressiva offerta dai pianoforti dal passato. Sarebbe bello che in tutti i Conservatori fosse presto istituito un corso ben strutturato (ma non dogmatico) di prassi esecutiva storicamente informata, come parte integrante del percorso formativo pianistico, e non solo riservato a chi intende specializzarsi in tastiere storiche. Quando studiavo in Conservatorio, io non ho mai avuto alcuna occasione di suonare un cembalo o un fortepiano, e temo che ancora oggi sia così per la gran parte degli studenti. Tuttavia la situazione è oggi certamente molto migliorata da questo punto di vista e lascia ben sperare per il futuro.
Rimangono, però, ancora molti pregiudizi da una parte e dall'altra: “fortepianisti” da un lato, e “pianofortisti” dall'altro a volte si guardano in cagnesco, come se appartenessero a due fazioni avverse. Sarebbe bello, invece, che la curiosità e la voglia di conoscenza e di ricerca vincesse i pregiudizi e i dogmatismi, e che, condividendo conoscenze, esperienze ed entusiasmi, si possa vivere la musica confrontandosi serenamente, con un reciproco arricchimento.
Roberto Prosseda
Per Elisa o Per Teresa
Uno dei brani pianistici più celebri al mondo è la Bagatella WoO 59 di Beethoven, comunemente nota con il titolo “Für Elise”. Nonostante la celebrità (anche sproporzionata rispetto all’importanza del brano), esso è raramente suonato dai pianisti concertisti, forse anche per l’immagine che oggi la composizione ha acquisito, legata al mondo dei pianisti principianti e delle musiche di attesa dei centralini telefonici.
Stupisce, tuttavia, che un brano così diffuso tra gli studenti di pianoforte sia ancora oggi oggetto di vari errori di lettura, a partire dal titolo, che non è stato assegnato da Beethoven. La breve bagatella, infatti, sarebbe dedicata a Therese Malfatti, e dunque, semmai, potrebbe intitolarsi “Für Therese”, mentre il nome di Elisa sarebbe probabilmente stato inserito per errore (forse a causa di una lettura errata del nome “Therese” da Ludwig Nohl, che curò la pubblicazione postuma della prima edizione, apparsa nel 1867). La maggior parte delle edizioni attualmente in commercio presentano degli errori, legati alla prima edizione di Nohl, che fu riferimento per le altre:
http://petrucci.mus.auth.gr/imglnks/usimg/e/ed/IMSLP103834-PMLP14377-Beethoven-WoO.059nohl1867.pdf
Il manoscritto originale (non pubblicato da Beethoven) è oggi perduto. Ludwig Nohl pubblicò la Bagatella 40 anni dopo la morte dell’autore, così che né Beethoven allora, né gli altri revisori successivi poterono correggere eventuali errori.
L’edizione Henle del 1976, a cura di Otto von Irmer (HN 128), è oggi una delle più attendibili, in quanto è basata sul manoscritto di uno sketch autografo di Beethoven (il manoscritto integrale è ancora perduto), conservato alla Beethoven Haus di Bonn e consultabile online:
Una prima novità che apprendiamo da questo sketch riguarda l’indicazione di tempo: Nohl (e tutte le edizioni seguenti) scrive “Poco moto” (indicazione suscettibile di interpretazioni contrastanti), mentre lo sketch autografo riporta “Con molta grazia”.
L’errore più evidente che si è poi tramandato (e moltiplicato) in quasi tutte le edizioni riguarda la battuta 7, in cui le ultime tre semicrome della mano destra sono di solito notate “Mi-Do-Si”, mentre la versione corretta è “Re-Do-Si”. L’errore risale alla prima edizione di Nohl, la quale, peraltro, nei successivi episodi in cui ritorna lo stesso inciso presenta invece la versione esatta “Re-Do-Si”. Stupisce che moltissime edizioni successive abbiano, invece, ripetuto l’errore in tutti gli episodi analoghi (si può parlare di coerenza in tal caso?).
Lo sketch autografo riporta chiaramente il Re e non il Mi. Quanto agli aspetti musicali, è per me ovvio che si tratti di un Re, in quanto il salto di settima ascendente dato dal Re-Do crea una bellissima tensione melodica, che anticipa lo stesso motivo riportato nelle battute seguenti. Forse molti revisori allora corressero il Re in Mi, condizionati dalla inesattezza della prima edizione, perché lo ritennero un errore nella conduzione delle voci. Infatti il Re è una settima che non risolve sul do inferiore, anche se, a ben vedere, si potrebbe considerare il Do centrale della battuta 9 come una risoluzione ritardata. Viceversa, l’immediata risaluta di settima dal Re al Do all’ottava superiore può aver urtato la “sensibilità” di molti revisori. Non dimentichiamo, del resto, che in passato i revisori non si facevano problemi a correggere presunti errori di Beethoven: lo fa anche Alfredo Casella nel primo tempo della Sonata op. 111, correggendo presunte quinte parallele!
Oggi la discussione su quale sia la note giusta è ancora aperta, ma, sin dalla pubblicazione dell’edizione Henle, tutti i più autorevoli studiosi beethoveniani, e tutti i pianisti ben informati sulle fonti, concordano sul fatto che quella nota sia Re e non Mi. Le incisioni disponibili su etichetta Decca di Alfred Brendel e Vladimir Ashkenazy, ad esempio, riportano entrambe il Re.
Personalmente, non ritengo “Per Elisa” (o “Für Therese” che dir si voglia) un brano paragonabile ai grandi capolavori di Beethoven, ma ho recentemente scoperto che suonare Per Elisa in pubblico, cosa che a volte ho fatto come bis, dà una particolare soddisfazione: forse anche legata al gusto di sfatare tanti luoghi comuni, non ultimo quello del Re invece del Mi!
Roberto Prosseda
Roberto Prosseda suona “Per Elisa” dal vivo al Teatro alla Vigne, Lodi, 29 maggio 2015. Regia di Pietro Tagliaferri:
Mozart ben temperato
Note interpretative per il CD "Mozart Piano Sonatas, Volume 1 - Decca, 2016
C'è davvero bisogno di una ennesima incisione delle Sonate di Mozart? È ancora possibile dire qualcosa di nuovo suonando queste composizioni, rimanendo nel rispetto della partitura e delle indicazioni dell'autore? Se Mozart tornasse a vivere oggi, preferirebbe eseguire le sue Sonate su un fortepiano dell'epoca o su un pianoforte moderno?
Sono interrogativi a cui non è possibile dare una risposta univoca, ma su cui ho riflettuto molto, approfittando anche della disponibilità delle fonti e di molti studi filologici recenti. Nella citata lettera al padre, scritta il 17 ottobre 1777, Mozart dichiara il suo entusiasmo a proposito di un nuovo pianoforte Stein che aveva provato, dotato di un rudimentale sistema per azionare gli smorzatori (corrispondente al pedale di destra negli strumenti moderni): “La [Sonata] in Re maggiore ha un effetto incomparabile sul pianoforte Stein. Il sistema di pedale a ginocchiera è superiore a qualsiasi altro realizzato da lui o da altri. Basta sfiorarlo e si aziona, e appena si rilascia leggermente il ginocchio, non si sente più il minimo riverbero”. Ciò dimostra la curiosità di Mozart verso le innovazioni, e la sua prontezza a sperimentare strumenti che consentono una maggiore varietà espressiva.
Oggi è possibile consultare i manoscritti delle prime sei Sonate, attualmente conservati presso la Biblioteka Jagiellońska di Cracovia, e vi sono varie edizioni critiche che confrontano il manoscritto con le prime edizioni pubblicate. Osservando le partiture, si è colpiti dalla grande quantità di segni di articolazione originali, che non troveremo con questa abbondanza nelle Sonate successive. Ho quindi cercato di seguire con attenzione le legature e le dinamiche originali, anche nei casi in cui la tradizione ci ha abituato a sonorità più morbide e a contorni più smussati. Proprio dalle legature e dai vari tipi di staccato (chiodi o punti) si può dedurre il tipo di “pronuncia” di una frase musicale che Mozart aveva immaginato. Anche i segni dinamici, qui apparentemente limitati a forte e piano (rari i crescendo e decrescendo, e rarissimi i pianissimo), svelano un mondo poetico dove i contrasti sono fondamentali per la definizione di una adeguata varietà espressiva.
Per restituire al meglio queste intenzioni, avevo bisogno di uno strumento particolarmente sensibile e con una sonorità diversa dal consueto suono “patinato” del pianoforte moderno. Ho quindi valutato di incidere le Sonate su fortepiani dell'epoca di Mozart, provando vari strumenti storici e alcune copie recenti. La pratica con il fortepiano è stata per me di grande importanza: ho potuto scoprire sonorità e modi espressivi che mi hanno consentito di entrare più a fondo nel mondo mozartiano e di arricchire la mia immaginazione timbrica. Tuttavia, ho dovuto prendere atto che la mia “lingua madre” rimane il pianoforte moderno, strumento che suono da quasi 40 anni, e con il quale riesco ad esprimere con immediatezza una maggiore varietà di intenzioni musicali.
Ho così deciso di utilizzare un pianoforte gran coda Fazioli costruito nel 2015, generosamente messo a disposizione dall'ingegner Paolo Fazioli presso la Fazioli Concert Hall di Sacile. La raffinatissima meccanica di questo strumento e la sensibilità della tavola armonica, particolarmente reattiva alle differenze di tocco, consentono di ottenere molte sfumature di colore, rendendo con chiarezza le diverse articolazioni. È inoltre possibile giocare con le microdinamiche anche in contesti di estrema rapidità, come all'interno dei trilli o dei gruppetti, e si possono efficacemente realizzare le indicazioni originali di Forte-Piano, ossia di un improvviso sbalzo dinamico all'interno di una nota tenuta. L'idea di ricreare la trasparenza della sonorità fortepianistica mi ha portato a ridurre al minimo l'uso del pedale di risonanza e a cercare sonorità al limite con il silenzio nei rari casi in cui Mozart indica pianissimo.
Il particolare colore delle incisioni su fortepiano è dato anche dall'accordatura storica, che non usa il temperamento equabile. Raccogliendo il suggerimento degli amici Jan Willem de Vriend e Stuart Isacoff, a cui sono molto grato per i preziosi consigli, ho proposto alla Fazioli di accordare il pianoforte secondo il temperamento non equabile “Vallotti”, oggi decisamente inusuale sul pianoforte moderno, ma molto diffuso negli anni in cui Mozart ha composto queste Sonate. La differenza rispetto alla comune accordatura moderna sta nel diverso colore che ogni tonalità acquisisce, per via della divisione dell'ottava in dodici semitoni non uguali. Così ogni Sonata ha un carattere del tutto peculiare, e si comprende perché Mozart abbia ambientato alcuni movimenti in una determinata tonalità. Ad esempio, il Fa minore dell'Adagio della Sonata K 280 assume qui un tono decisamente affranto, non genericamente malinconico. E quando, dopo l'inciso iniziale, si passa alla sezione in la bemolle maggiore, questa suona in modo più precario e illusorio, suggerendo l'idea di una felicità solo immaginata, ben lontana dalla realtà.
Nelle transizioni da una tonalità all'altra, sia che esse avvengano bruscamente o in modo graduale, è così molto più facile cogliere lo spostamento da un luogo armonico (ed emotivo) all'altro in modo molto più coinvolgente. Le armonie dissonanti suonano più stridenti e “dolorose”, enfatizzando la potenza drammatica e visionaria che già in queste prime Sonate è presente, e che le rendono, a distanza di quasi 250 anni, musica di grande forza e modernità.
Roberto Prosseda
Aspettando Gounod (sulle opere per pedalpiano e orchestra di Charles Gounod, 2011)
Articolo pubblicato sulla rivista Music@, novembre 2011
Scoprire e presentare al pubblico musiche rare e dimenticate mi ha sempre affascinato. È impagabile l’emozione di suonare per la prima volta in tempi moderni brani scritti uno o due secoli fa da grandi compositori. Ed è altrettanto impagabile scoprire che un manoscritto trascurato o dimenticato contenga musica di grande profondità, rimasta nell’oblio per ragioni indipendenti dalla volontà dell’autore e dai valori intrinseci della partitura. La curiosità di indagare ambiti ancora inesplorati del repertorio pianistico, unita ad una notevole dose di fortuna, mi ha portato a scoprire, oltre a numerosi manoscritti di Mendelssohn, anche un altro singolare inedito: il ‘Concerto in mi bemolle maggiore’ di Gounod (1889). Ho appreso dell’esistenza del Concerto dal volume “Gounod” di Gérard Condé (Fayard, 2009). Tuttavia lo stesso libro lo dà per inedito, informando che il manoscritto si trova in mano ad un anonimo collezionista privato che lo acquistò in un’asta a Parigi nel 1979. Con l’aiuto della Foundation Bru-Zane di Venezia, ho contattato Gérard Condé, che mi ha generosamente inviato le fotocopie del manoscritto. I motivi di interesse di questo inedito sono molteplici: non solo si tratta di un Concerto scritto con grande maestria da uno dei principali protagonisti del Romanticismo musicale francese, ma, soprattutto, è l’unico Concerto ad essere stato concepito per il ‘piano-pédalier’: uno strumento a sua volta dimenticato, e certamente degno di essere riscoperto e valorizzato.
Chiamato anche ‘Pedalflügel’ in Germania o ‘Pedalpiano’ nei paesi anglofoni, il piano-pédalier è un pianoforte a cui è abbinata una pedaliera di tipo organistico, collegata ad una seconda cordiera. È uno strumento di antiche origini: già nel 1460 si parla di un clavicordo con pedaliera nel trattato enciclopedico di Paulus Paulirinus. Per il clavicordo e per il clavicembalo con pedaliera anche J. S. Bach ha composto diversi brani, come le sei ‘Sonate in trio’ BWV 525-530 “für zwei Claviere und Pedal”. È noto che Mozart possedeva un piano-pédalier, su cui ha anche improvvisato in pubblico. Mendelssohn e Schumann ebbero in casa dei piano-pédalier costruiti dal lipsiense Ludwig Schöne. Fu soprattutto Schumann a credere nelle potenzialità di questo strumento: convinto che sarebbe stata la naturale evoluzione del pianoforte, egli scrisse alcune ispiratissime musiche per il piano-pédalier, come i ‘Sechs kanonische Etüden für den Pedalflügel’ op. 56 e i ‘Vier Skizzen für den Pedalflügel’ op. 58. Qui la linea affidata alla pedaliera dona una luce particolare alle armonie, e sembra quasi impersonare ‘Maestro Raro’, l’alter ego di Schumann che è espressione di poetica saggezza e sublime equilibrio. Perché Schumann amava così tanto il piano-pédalier? Credo che proprio la presenza di una voce diversa, in grado di sostenere le armonie, ma anche, grazie al suo timbro diverso, di dialogare dialetticamente con la tastiera del pianoforte, abbia stimolato la sua creatività. Del resto egli era da sempre attratto da particolari utopie sonore e compositive, dunque l’idea di far suonare il pianoforte con due voci diverse e coesistenti deve averlo certamente entusiasmato, a tal punto da convincere Mendelssohn ad istituire una cattedra di piano-pédalier al Conservatorio di Lipsia.
Nonostante ciò, il piano-pédalier non ebbe però grande fortuna in Germania nella seconda metà dell’Ottocento, rimanendo soprattutto uno strumento da studio per gli organisti, che potevano così esercitarsi anche fuori dalle chiese. Tuttavia nello stesso periodo guadagnò una certa popolarità in Francia, grazie all’interesse di due grandi costruttori di pianoforti, Erard e Pleyel, che produssero anche piano-pédalier. Parallelamente alcuni compositori francesi ne arricchirono il repertorio con numerose opere: Charles Valentin Alkan ha composto più di tre ore di musica per piano-pédalier, tra cui i ‘Dodici Studi per Pedaliera sola’ (alcuni pressoché ineseguibili) e il ‘Bombardo-Carillon’ per pedaliera a quattro piedi. E Charles Gounod, ammirato dalle virtù dell’amica “pedalpianista” Lucie Palicot, compose ben quattro brani per piano-pédalier e orchestra: ‘Fantaisie sur l’Hymne Russe’ (1885), ‘Suite Concertante’ (1886), ‘Danse Romaine’ (1888) e, da ultimo, il suddetto ‘Concerto in mi bemolle maggiore’ (1889), chiaramente scritto per valorizzare le potenzialità gestuali e timbriche della pedaliera. In tutti e quattro i movimenti (Allegro moderato, Scherzo, Adagio ma non troppo, Allegretto pomposo) il solista è protagonista assoluto. La scrittura per la pedaliera non è quasi mai di mero supporto armonico, ma assume un ruolo preponderante, esaltando le potenzialità di dialettica musicale e l’espressione gestuale, peculiare di questo strumento. Proprio l’interesse di questo inedito mi ha spinto ad apprendere la tecnica della pedaliera. Mi sono così reso conto che ancora oggi non esiste una tradizione esecutiva del piano-pédalier: non ci sono metodi, né trattati. E la tecnica della pedaliera organistica non può essere applicata alla pedaliera pianistica, essendo quest’ultima collegata ad una cordiera e ad una meccanica a martelli e richiedendo, quindi, una particolare sensibilità del tocco. Ho appurato, dunque, che era necessario adattare la tecnica del trasferimento del peso, utilizzata da quasi tutti i pianisti concertisti, anche alla pedaliera: solo così è possibile ottenere una sonorità ricca, un legato apprezzabile e un migliore controllo della dinamica. È anche importante trovare un giusto equilibrio tra il movimento delle gambe e quello delle caviglie, che corrispondono rispettivamente al braccio e al polso nella tecnica pianistica. Una difficoltà in più è data dal controllo del baricentro del corpo: quando le gambe sono “occupate” sui pedali non è possibile appoggiarsi su di esse per controllare i movimenti e le rotazioni del busto. È quindi necessario individuare un punto di equilibrio alternativo sul bacino, rinforzando i bassi addominali e, all’occorrenza, appoggiandosi sulle mani - cosa possibile anche mentre suonano - per gli spostamenti laterali. È inoltre fondamentale mantenere una buona sensibilità tattile con la pedaliera: le scarpe tradizionali, dunque, sono inutilizzabili. Suonare scalzi è una possibilità che ha anche alcuni svantaggi (non tanto estetici, quanto inerenti il dolore fisico!). In attesa di individuare la calzatura ideale, per il momento alterno un paio di scarpe in pelle sottilissima, usate per la danza jazz, ad un paio di ipertecnologiche Vibram “Twentyfingers”, che hanno il solo svantaggio di essere leggermente rumorose nei passaggi rapidi e poco compatibili con il classico rigore dell’abito da concerto.
Per i miei concerti utilizzerò l’unico esemplare moderno di piano-pédalier: il ‘Doppio Borgato’. Costruito dall’artigiano Luigi Borgato nel 2000, presenta alcune importanti innovazioni, come l’introduzione del pedale di risonanza per la pedaliera e l’estensione di 37 note (contro le 30 o 32 note delle pedaliere storiche). Il timbro della pedaliera Borgato è nettamente diverso da quello del pianoforte, e ciò, unito alle impressionanti capacità dinamiche, dovrebbe attirare l’interesse di molti autori contemporanei. Le potenzialità offerte dalle due cordiere sovrapposte sono in effetti molteplici: sono possibili accordature diverse tra le due cordiere (per quarti di tono, o con temperamenti differenti), particolari preparazioni su una o entrambe le cordiere per isolare particolari suoni armonici o ottenere timbri eterodossi, giochi di risonanze per simpatia tra le due cordiere.
Il repertorio per piano-pédalier, nonostante i capolavori di Schumann e Gounod, rimane ancora molto ristretto. Tra gli altri compositori che hanno lasciato significativi contributi alla produzione pedalpianistica, oltre al già menzionato Alkan, altri francesi come Théodore Dubois e Théodore Salomé, e soprattutto Franz Liszt, la cui celebre ‘Fantasia “Ad nos, ad salutarem undam”’ fu concepita per piano-pédalier, anche se è comunemente nota nella versione organistica. È quindi auspicabile che i compositori di oggi possano arricchire il repertorio pedalpianistico. Ciò sta già avvenendo: Cristian Carrara (1977) ha scritto un ispirato ‘Magnificat’ (2011) per piano-pédalier e orchestra, che eseguirò in numerose occasioni accanto al Concerto di Gounod. Qui la voce della pedaliera riprende temi gregoriani, intersecandosi con il denso e cangiante tessuto orchestrale e dando una peculiare caratterizzazione timbrica alla partitura. Anche Ennio Morricone ha accolto il mio appello a scrivere per piano-pédalier, componendo nel febbraio 2011 lo ‘Studio IV bis’ per questo strumento – si tratta di un adattamento del suo preesistente Studio IV per pianoforte, con l’aggiunta di una nuova voce per la pedaliera. È stato subito seguito da Andrea Morricone, autore di ‘Omaggio a J. S. B.’. Il repertorio contemporaneo per piano-pédalier comprende anche alcuni altri brani per Doppio Borgato scritti da Jean Gillou, Franco Oppo, Fabrizio Marchionni, Sergio Prodigo, Luciano Bellini, Giovanni Damiani e Giuseppe Lupis, le cui ‘Variazioni su Ah! Vous Dirai-je, Maman’ (2011) indagano argutamente e con ironia le potenzialità grottesche e spettacolari della performance alla pedaliera. Un discorso a parte merita il lavoro del compositore-performer americano Charlemagne Palestine, che nel Doppio Borgato ha individuato un ideale medium espressivo per la sua peculiare tecnica di “strumming”, estesa ora alla pedaliera. Ma Palestine non scrive le sue partiture, rendendo dunque impossibile l’esecuzione ad altri. Ne esiste però una recentissima incisione su CD che vale la pena di ascoltare. Gli orizzonti sono, dunque, vasti e multiformi. Chissà che, dopo la provvisoria estinzione del piano-pédalier nei primi del ‘900, non potremo ora assistere ad una nuova ‘pédalier-renaissance’?
Roberto Prosseda