I colori del suono
Il fascino dell’ascolto musicale è anche dato dalle numerose suggestioni sinestetiche che i suoni portano con sé. Durante l’ascolto o la lettura musicale è frequente associare colori precisi a certe armonie, con singolari coincidenze percettive da parte di diversi ascoltatori. Tra i compositori che più si sono occupati della sinestesia tra colori e musica, spiccano i nomi dei russi Nikolay Rimsky-Korsakov e Alexander Skrjabin, il quale costruì un proprio sistema compositivo basato su precisi abbinamenti tra colori e suoni.
Se, da un lato, non esiste ad oggi una corrispondenza univoca e oggettiva tra note e colori, è inequivocabile che l’idea musicale sia sempre legata ad un’immagine, spesso ben definita anche nei dettagli cromatici. Anche uno strumento apparentemente meccanico e “in bianco e nero” come il pianoforte può evocare una infinita gamma di chiaroscuri, grazie alla gestione dei rapporti dinamici fra le varie voci che compongono un accordo o una trama polifonica. E i maggiori compositori erano maestri proprio in questo, ossia nello sfruttare i mezzi a loro disposizione (gli strumenti dell’orchestra) per disegnare con i suoni, dando forme, contorni e colori alle loro idee musicali.
Sono innumerevoli gli esempi di direttori d’orchestra che durante le prove chiedono agli strumenti una sonorità “più blu”, o “meno violacea”. È ovvio che si tratta di un parlare per metafore, ma sono metafore spesso condivise da tanti musicisti, e ciò non può essere un caso: esiste, dunque, una dimensione della musica che trascende le qualità fisiche del suono, e che sfugge ad una classificazione scientifica.
Del resto, la grandezza della musica non è certo circoscrivibile con una descrizione verbale. A maggior ragione, sarebbe impossibile, oltre che inutile, cercare una corrispondenza matematica tra singoli suoni e altrettante tinte cromatiche. Il senso di questo scritto è, semmai, quello di incoraggiare musicisti e ascoltatori nel lasciar permeare la propria immaginazione visiva durante la performance musicale. In fin dei conti l’aspetto sonoro della musica che ascoltiamo non è altro che una proiezione, spesso solo parziale, di un’idea artistica ben più ampia. Nel caso dei grandi capolavori, il messaggio del compositore trascende i limiti sensoriali, uditivi e visivi, ed è in questi casi che attraverso i suoni si percepisce qualcosa in più, di non descrivibile, eppure ben presente e inequivocabile. La grandezza della musica risiede proprio in quel mistero, e noi abbiamo l’opportunità di coglierlo ad ogni ascolto, se riusciamo a porci nella giusta condizione.
Roberto Prosseda
Musica e Spazio
“La musica è lo spazio tra le note”. Questa affermazione, attribuita a vari compositori, tra cui Claude Debussy, è una delle più suggestive e condivisibili definizioni di musica. Lo spazio è una categoria che non tutti associano istintivamente alla musica, eppure non potrebbe esistere un discorso musicale se ciascun suono non avesse un preciso posizionamento in rapporto con gli altri suoni della stessa composizione. Si può parlare di spazio a vari livelli: da quello, più immediato, legato alla posizione grafica delle note in una partitura, a quello, più astratto, evocato da particolari alchimie timbriche che proiettano l’ascoltatore in dimensioni di estrema distanza spaziale.
Lo spazio musicale è in stretta correlazione con il tempo, e la sua percezione è data proprio dalla gestione dell’agogica: il senso di grandi distanze è dato facilmente con un tempo dilatato e teso, e, viceversa, l’idea di uno spazio ristretto è resa con l’addensamento di più suoni in un breve arco di tempo. E, come il tempo, anche la percezione dello spazio in musica è strettamente soggettiva, e legata alla sensibilità del singolo ascoltatore e al contesto (anche visivo) in cui si trova.
Un’altra, affascinante e più concreta accezione di spazio in musica è data dalla distribuzione dei suoni tra i vari registri dell’orchestra o di un singolo strumento: molti compositori collocano i temi su differenti altezze, sfruttando così le peculiarità timbriche di ogni specifica tessitura di uno strumento, per distribuire i suoni nello spazio, come a disegnare una mappa musicale in cui ogni voce ha una specifica collocazione fisica.
Un ulteriore parametro che serve a definire le coordinate spaziali dei suoni è quello della dinamica: ad esempio, è sufficiente dosare due linee melodiche sovrapposte con dinamiche differenti, per posizionarne una in primo piano (quella più forte) e l’altra sullo sfondo. E questo principio è, ovviamente, applicabile con infiniti gradi e sfumature, specie nel caso di partiture con un maggior numero di voci.
Anche per gli interpreti, quindi, può essere molto utile avere una definita visione spaziale della musica che si esegue, e saper posizionare con esattezza ogni voce su una determinata posizione, gestendone di conseguenza le caratteristiche dinamiche e agogiche. Fuor di metafora, ciò significa saper dare ad ogni linea melodica una precisa connotazione timbrica, legata al grado di lontananza o di “distanza da terra” che l’interprete immagina. E ancor più affascinante è pensare ai temi musicali come oggetti-vettori in movimento nello spazio, ciascuno con una sua specifica direzione e velocità.
La musica, in ultima analisi, è basata sulle relazioni tra suoni, e quasi sempre si tratta di relazioni multiple e complesse. Più siamo in grado di cogliere le sfumature di queste relazioni, più l’esperienza di interpretazione e ascolto della musica sarà intensa e appagante.
Ascoltare il tempo
Il rapporto con il tempo è un elemento fondante di ogni interpretazione musicale. Il “tempo della musica, però, è ben diverso dal tempo che scandisce i ritmi quotidiani, in quanto si estende in un ambito chiuso, delimitato dalla durata della singola composizione: è un tempo al contempo interno ed esterno a noi stessi, ossia soggettivo ed oggettivo insieme.
La percezione del tempo da parte dell'ascoltatore è a sua volta soggettiva, e influenzata da tanti elementi, legati sia all'interprete, sia a fattori contingenti (riverbero della sala, distanza dalla fonte sonora, grado di ansia dell'ascoltatore, stabilità ritmica dell'esecuzione).
Una delle principali caratteristiche dei grandi interpreti (siano essi musicisti, attori, o danzatori od oratori) è quella di non avere mai un rapporto passivo, subordinato con il tempo. O, meglio, di non considerare il tempo come un'entità esterna a cui adeguarsi, ma, al contrario, come qualcosa che loro stessi possono plasmare, dandole la forma giusta in base alle esigenze espressive e drammaturgiche che la musica richiede, e al continuo feedback con il luogo in cui avviene la performance.
E, a ben vedere, alcuni grandi capolavori musicali, come, ad esempio, le ultime Sonate o gli ultimi Quartetti di Schubert, quando interpretate da artisti ispirati e carismatici hanno la capacità di farci “uscire dal tempo terreno”, portandoci in nuove dimensioni percettive, che rispondono ad altre leggi temporali.
Per dirla in altre parole, i grandi interpreti non “vanno a tempo”, ma “creano il tempo”. Del resto, l'ascoltatore percepisce la vertigine della velocità o l'incanto sospeso di un Adagio non soltanto a seconda della rapidità reale del tactus metronomico, bensì soprattutto in base all'energia motoria e alla tensione musicale comunicata dall'interprete. Questa non dipende solo dalla rapidità, dalla sapiente gestione dell'agogica e della dinamica, che sfrutta impercettibili cambi di tempo e di sfumature dinamiche in modo funzionale alla drammaturgia del brano.
Non basterebbe un lungo saggio per dissertare sulle infinite possibilità di gestire il tempo in musica, e non è questa la sede per tentare una più articolata analisi sull'argomento. Questo breve pensiero vuole, piuttosto, essere un incoraggiamento verso gli ascoltatori e gli interpreti a lasciarsi stupire e guidare dalla percezione soggettiva del tempo musicale, ad “ascoltarlo” nelle sue peculiarità.
Troppo spesso, ancora oggi, vi sono insegnanti di musica che insistono sull' “andare a tempo”, sul “rispettare il tempo”, come se il tempo fosse soltanto quello scandito dall'asticella del metronomo o dalle lancette dell'orologio, al di fuori della musica e di noi stessi. Invece sono certo che le più appaganti e intense esperienze musicali possano avvenire quando si recuperi un rapporto naturale, organico, con il tempo, ascoltando interiormente il proprio “tempo soggettivo”, e lasciando che questo sia plasmato dall'intensità della grande musica.
Roberto Prosseda
Ascoltare con gli occhi
La musica classica, e in particolar modo quella da camera, è sempre stata connotata da un certo grado di astrazione, quasi fosse indipendente da ogni aspetto legato all'immagine. Del resto, per definizione la musica strumentale (esclusa quella per il cinema o per il teatro) sembrerebbe svincolata dalla vista, essendo costituita da suoni che vengono percepiti dall'udito in maniera del tutto autonoma da stimoli visivi. Eppure tutti i musicisti sanno bene che ogni suono porta con sé un'immagine: magari non concreta, soggettiva, indefinita, ma pur sempre parte integrante del messaggio musicale. Anche l'ascoltatore è influenzato da ciò che vede durante un concerto, ed è facile appurare che, con diverse condizioni di luce e di campo visivo, la percezione del medesimo brano musicale sarà diversa.
Stupisce, quindi, che ancora oggi nei concerti di musica classica l'aspetto visivo sia spesso considerato secondario, se non addirittura trascurabile. I musicisti, spesso maniacalmente attenti alle minime sfumature timbriche della loro interpretazione, di solito non si curano di ciò che il pubblico vede di loro e della cornice visiva nella quale la loro performance prende vita. Ben lungi dal volere incoraggiare una prevalenza dell'immagine sul contenuto, questo pensiero punta, però, a far luce sull'importanza del rapporto tra messaggio sonoro e contenuto visivo. La cura di questo aspetto non è necessariamente a discapito del contenuto musicale, ma, semmai, lo può valorizzare più efficacemente.
Un esempio lampante in tal senso è quello del grande pianista russo Sviatoslav Richter. Negli ultimi anni della sua carriera, Richter scelse di suonare non più a memoria, ma con lo spartito sul leggio del pianoforte. Le sue prescrizioni in termini di illuminazione della scena erano molto precise e peculiari: pochissima luce sul pubblico in sala e una piccola lampada da tavolo poggiata sul pianoforte, ad illuminare lo spartito, più che il pianista. Ho personalmente assistito a tre dei concerti di Richter, e, a distanza di 25 anni, ne ho un ricordo ancora vivido, e, oserei dire, fotografico.
E il grado di ascetismo di quelle interpretazioni mi è rimasto impresso anche grazie al contesto visivo a cui erano abbinate. La musica si ascolta anche con gli occhi.
Roberto Prosseda
Degustare la musica, ascoltare il vino
Sono diversi i festival e i progetti concertistici che uniscono la degustazione di vino all'ascolto della musica. E, in effetti, le due cose hanno molto in comune, al punto che si possono facilmente invertire i termini: degustare la musica, ascoltare il vino.
Del resto, degustare un vino pregiato è un atto di profonda concentrazione. Ogni istante assume una precisa connotazione emotiva. La scansione del tempo si trasforma. Le note floreali o tanniche di un gran vino emergono in un graduale percorso temporale: il “tempo di ascolto” di una degustazione non è così diverso da quello di un capolavoro musicale. Anche assistere ad un concerto dal vivo richiede un’analoga attenzione a minimi dettagli, che pure possono trasformare l’ascolto in un’esperienza interiore di grande intensità e gratificazione. E anche i suoni hanno i loro sapori e retrogusti, corrispondenti alle diverse risonanze e alchimie timbriche che vengono diffuse dai musicisti.
Recentemente mi è capitato di tenere un recital presso le Cantine Jermann (www.jermann.it), nell'ambito del festival EnoArmonie. Durante l'ascolto del concerto, il pubblico degustava tre assaggi di altrettanti vini Jermann, a cui ho pensato di coordinare altrettanti ascolti di Mendelssohn, scelti secondo l'età: si è iniziato con un vino bianco giovane, accostato alla musica del Mendelssohn adolescente, per giungere ad un rosso più corposo, abbinato ai brani più maturi e intensi del compositore amburghese. Il risultato è stato sorprendentemente positivo: gli ascoltatori, stimolati anche dal punto di vista gustativo e olfattivo, sembravano più pronti a cogliere le minime sfumature del pianoforte, parallelamente all' “ascolto” dei vini e del loro cangiante decantare.
In sintesi, grazie a ciò si è pervenuti ad una percezione maggiormente condivisa, e il fatto di trovarsi al di fuori delle consuetudini rituali di una tipica sala da concerto ha consentito a tutti, me compreso, di acquisire una più libera disposizione all'ascolto.
In base alla mia esperienza, posso testimoniare che i concerti più ispirati di cui ho memoria, ossia quelli in cui percepivo una speciale tensione emotiva tra interprete e pubblico, sono in stati quasi sempre concerti “privati”, tenuti in stanze di antichi palazzi, per un pubblico di alcune decine di persone. Quasi tutta la musica da camera, del resto, è stata scritta per essere suonata in simili contesti. E proprio nel silenzio e nel calore di un salone antico, o, perché no, di una cantina vinicola, possono emergere sfumature, respiri, allusioni che difficilmente un ascoltatore potrà cogliere in un grande auditorium moderno con la medesima intensità.
Roberto Prosseda
Accordature d'epoca
L’accordatura del pianoforte è oggi globalmente standardizzata e si basa sul temperamento equabile, ossia sulla divisione in dodici parti uguali dell’ottava. Eppure nell’epoca di Haydn e Mozart questo tipo di accordatura non era ancora adoperata, e al suo posto erano diffusi altri sistemi di divisione dell’ottava, basati su intervalli asimmetrici: si tratta di accordature dette “ben temperate”, in quanto prevedevano dei “temperamenti” degli intervalli per poter suonare in diverse tonalità, ma senza troppo snaturare la purezza degli intervalli naturali: questi sistemi, infatti, si basano sull’accordatura di alcune quinte “pure”, temperando altri intervalli con aggiustamenti di frazioni di comma. L’argomento è vasto e complesso, ma vale la pena di considerarlo, poiché ogni diverso tipo di accordatura comporta grandi differenze anche all’ascolto.
Il temperamento equabile, diffusosi gradualmente nell’Ottocento, ha l’innegabile vantaggio di rendere tutte le tonalità ugualmente accordate: il suo uso ha consentito l’evoluzione delle armonie complesse, fino alla dissoluzione del sistema tonale con la musica atonale e dodecafonica. Ma, se consideriamo il repertorio barocco e classico, può essere molto interessante ascoltarlo con le accordature che i compositori dell’epoca usavano: ad esempio, la musica di Bach per tastiera suona meravigliosamente con i sistemi ben temperati ma non equabili, come quello detto “Werkmeister III”, mentre i brani pianistici di Mozart acquistano una più ricca espressività con l’accordatura “Vallotti”, che prende il nome dal suo inventore, Francesco Antonio Vallotti. Si tratta di un’accordatura ben temperata, con sei quinte naturali pure e altre sei temperate. In effetti, le sonate di Mozart sono tutte in tonalità con poche alterazioni, e la maggior parte sono in do, fa e si bemolle maggiore, quindi particolarmente compatibili con questa accordatura. Il vantaggio rispetto alla consueta accordatura moderna è dato dal fatto che ogni tonalità acquisisce un colore diverso, e le tonalità con poche alterazioni suonano molto meglio, più ricche di armonici e più “calde”. Si comprende in tal modo perché Mozart sceglie il fa minore per esprimere stati d’animo di profonda tristezza, e il re maggiore per atmosfere giocose e solari. Ogni tonalità corrisponde ad un luogo dell’anima ben caratterizzato, e le modulazioni assumono quindi una forza drammatica particolarmente coinvolgente.
Per maggiori approfondimenti sull’evoluzione dei temperamenti e sulla loro influenza sulla musica e la cultura occidentale consiglio il bellissimo libro di Stuart Isacoff: “Temperamenti – Storia di un enigma musicale”, pubblicato in italiano da EdT.
Roberto Prosseda
La musica come educazione all'ascolto degli altri
In Italia è ancora molto limitata la presenza della musica come materia di educazione nella scuola dell’obbligo. E, ove presenti, le ore di “educazione musicale” spesso finiscono per essere momenti focalizzati alla pratica, in cui gli studenti provano a suonare uno strumento “didattico”, come il flauto dritto di plastica, o tastierine elettroniche. Ciò è legato ad una visione limitata delle potenzialità che la musica può portare nella formazione della persona. L’aspetto più importante, e spesso trascurato, è l’educazione all’ascolto, dove per ascolto si intende non solo l’abilità a distinguere un piano da un forte o una scala ascendente da una discendente, ma l’attitudine a sviluppare la propria concentrazione e sensibilità, per percepire e capire gli stimoli che riceviamo dagli altri. In sintesi, l’educazione all’ascolto dovrebbe tradursi nel saper riconoscere gli stati d’animo che proviamo, e che la musica ci aiuta a ritrovare. E, di conseguenza, ciò può stimolare negli studenti l’attitudine a “guardarsi dentro”, a prendere coscienza delle proprie reazioni emotive, e, quindi, a saperle meglio comunicare agli altri. Una maggiore consapevolezza dei propri stati d’animo può aiutarci a riconoscere gli stati d’animo nei nostri interlocutori, e quindi, appunto, a saperli “ascoltare”. Dall’attitudine all’ascolto deriva la comprensione, la condivisione, la compassione: tutti strumenti indispensabili all’uomo per una convivenza non solo civile, ma soprattutto ricca, improntata all’armonia e al rispetto dell’altro. Ecco perché ci si augura che l’educazione musicale sia ripensata in questo senso, e maggiormente presente in tutte le fasi della formazione scolastica, a partire dalle scuole materne.
Roberto Prosseda
La musica classica nell'età dell'interruzione
La sempre maggiore diffusione dei social network e degli smartphone sta profondamente cambiando le nostre abitudini e, secondo recenti ricerche, anche il nostro cervello.
La vita quotidiana dell’uomo occidentale, perennemente connesso a internet con cellulari, tablet e computer, si sta trasformando in quella che un recente studio della University of Southern California ha definito “l’età dell’interruzione”: ossia un modo di vivere e di interagire basato proprio sull’impossibilità (e, di conseguenza, inabilità) a perseguire una singola azione, poiché siamo portati ad interromperla da altre.
L’abilità a concentrarsi e a mantenere un’attenzione costante su un unica fonte è quindi sempre più rara e, se vogliamo, anche fuori moda. Tuttavia, secondo Paolo Legrenzi, proprio quei pochi che sapranno mantenere la concentrazione sapranno cambiare il mondo.
Un concerto di musica classica oggi è una delle pochissime occasioni in cui possiamo permetterci il lusso (o, a seconda dei punti di vista abbiamo l’obbligo) di spegnere telefonini, di disconnetterci dai social network, e di convogliare la nostra attenzione su un unico messaggio: la musica. E non solo il messaggio è unico, cioè si dirama da una unica fonte di ascolto (il palcoscenico), non amplificata o replicata da altri altoparlanti; ma, soprattutto, il messaggio è complesso e si estende in un arco temporale, durante il quale l’attenzione dell’ascoltatore non può interrompersi. Si può leggere un libro a pezzi, si può anche vedere un film con interruzioni, ma non si può ascoltare una sinfonia di Beethoven dal vivo mettendo in pausa l’orchestra.
Ecco perché, oggi più che mai, l’ascolto dal vivo della musica, e della musica complessa in particolare, cioè quella che richiede uno sforzo di concentrazione e attenzione esteso in un determinato arco temporale, è un’occasione quanto mai utile per riappropriarsi del nostro pensiero critico, per far respirare la mente e il cuore. In sintesi, per vivere meglio.
Roberto Prosseda
La consapevolezza delle proprie emozioni
Uno degli effetti “collaterali” più importanti di chi fa musica in modo approfondito è certamente il prendere coscienza della propria interiorità, il saper ascoltare: ciò non include soltanto una maggiore sensibilità dell’udito, ma soprattutto la capacità di sapersi guardare dentro per riconoscere e vivere consapevolmente le proprie emozioni.
Questo è ben noto a molti musicisti, ma ora è ulteriormente confermato da uno studio pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, che indaga gli effetti dello studio di uno strumento musicale sullo sviluppo cerebrale degli adolescenti.
Imparare a controllare i movimenti complessi necessari per suonare un violino o un pianoforte, infatti, potenzia le capacità mentali. Secondo questo studio, che ha monitorato con risonanze magnetiche 232 ragazzi tra i 6 e i 18 anni, le aree della corteccia cerebrale dedicate alla memoria di lavoro e all’organizzazione mentale sono più spesse nei giovani che studiano uno strumento musicale.
Come confermato anche da altre ricerche riportate sul Journal of Neuro Science, la pratica musicale rende il nostro cervello più reattivo e flessibile, con effetti positivi che si estendono nell’intero arco vitale.
Non a caso, in molte aziende anglosassoni chi ha nel curriculum un diploma di conservatorio viene spesso considerato con maggiore attenzione, in quanto lo studio della musica agevole le capacità relazionali, la gestione delle emozioni e l’organizzazione del lavoro: tutte doti indispensabili in molteplici aree professionali, anche esterne al mondo musicale.
Roberto Prosseda
Slow listening - degustare la musica
Se c’è un termine che rappresenta al meglio le caratteristiche della vita moderna, questo è forse multitasking, ossia lo svolgere più attività contemporaneamente. Potrebbe sembrare un positivo segno di progresso, che agevola e velocizza le nostre attività, ma questo stile di vita risulterebbe poco compatibile con il nostro cervello, che non sarebbe progettato per gestire più attività sovrapposte. Gli effetti negativi del multitasking per la nostra salute sono emersi nel recente studio del neuroscienziato Daniel J. Levitin, direttore del Laboratory for Music, Cognition and Expertise alla McGill University e autore del libro “The Organized Mind: Thinking Straight in the Age of Information Overload.”
In sintesi, il continuo sovrapporsi di informazioni diverse a cui siamo oggi sottoposti rischia di indebolire la nostra capacità di attenzione e di concentrazione. Si innescherebbe anche un processo ormonale che causa dipendenza, “premiando” il cervello quando esso di distrae e passa da un’informazione all’altra. La dipendenza da Facebook o dalle email è in effetti un fenomeno in espansione, che potrebbe condizionare la serenità e la salute delle future generazioni.
Un rimedio semplice è diventare “degustatori” di musica classica: sapere ascoltare e gustare un’opera musicale implica uno sviluppo della propria sensibilità e spesso può rappresentare il primo passo di un percorso di riscoperta della bellezza di luoghi, paesaggi e sapori, che potremmo riassumere nel concetto di slow listening. Al pari di slow food, slow listening comporta l’assenza di ogni tipo di fretta, e dà la priorità alla qualità del messaggio di ascolto, rispetto alla quantità. La musica classica è slow per antonomasia, e ciò non vuol dire che essa manchi di energia o di passione, ma, al contrario, che proprio per la maggiore varietà di nuances e gradi di espressione consente una più intensa e appagante esperienza di ascolto.
Roberto Prosseda
Liberi di ascoltare, liberi di giudicare?
Per definizione, la musica non è una scienza, ma una forma d'arte, e come tale, non può essere oggetto di un giudizio assoluto o perfetto. Facile, pertanto, giustificare le frequentissime divergenze d'opinione in merito ad una determinata interpretazione: è pacifico che ogni ascoltatore abbia preferenze differenti, in base alla propria peculiare cultura e sensibilità. Ma siamo proprio sicuri che i nostri giudizi appartengano veramente a noi, e che non siano invece frutto di complesse influenze esterne? Siamo veramente liberi da pregiudizi quando ascoltiamo un'esecuzione musicale? Un esempio. I giornali pubblicano numerosi articoli che preannunciano un grande evento, il concerto di un famoso artista che torna ad esibirsi dopo tanti anni in Italia. Ne parla anche la televisione e molti si affrettano ad acquistare il costoso biglietto, prima che sia tutto esaurito. Finalmente giunge il fatidico momento del concerto. La sala è strapiena, il grande musicista fa il suo ingresso con passo lento e sicuro, e dopo alcuni intensi attimi di silenzio dà inizio all'esecuzione. Molti ascoltatori distillano quelle note con il fiato sospeso: dopo mesi di attesa, stanno ascoltando il grande artista di cui tanto si è parlato. Bene, quanti di loro, in questa particolare condizione emotiva, riusciranno a percepire veramente ciò che il musicista sta facendo? Non molti. La maggior parte delle emozioni che giungeranno al pubblico potrebbero essere dovute più alla campagna pubblicitaria, ben preparata dagli efficientissimi uffici stampa dell'artista e dell'ente organizzatore, che non al reale carisma del concertista. E l'alto prezzo del biglietto rappresenta una subdola via per lasciare il pubblico soddisfatto: lo spettatore cercherà inconsciamente di trovare tutti i pregi nell'esecuzione per cui ha pagato tanto, anche a costo di ricorrere ai miraggi! E cosa sarebbe accaduto se lo stesso artista avesse suonato esattamente allo stesso modo, ma in condizioni diverse (sala piccola, periferica e semivuota, biglietto di 3 euro, nessuna pubblicità, neanche l'annuncio sul quotidiano locale)? Difficilmente avrebbe avuto lo stesso successo... Il mondo della musica classica dà l'impressione di somigliare sempre più a quello della musica commerciale, in cui la costruzione dell'immagine, spesso realizzata grazie ad ingenti sponsorizzazioni, conta molto più della effettiva qualità artistica. Alcune stagioni concertistiche registrano costantemente il "tutto esaurito" nonostante un livello musicale scadente, mentre altre investono tutto sul cartellone raccogliendo i migliori artisti del momento, ma non riescono mai a riempire neanche metà della sala. Questa non vuole essere una denuncia moralistica: anzi, trattare la musica come un prodotto d'immagine potrebbe anche essere un vantaggio, così che possa diventare un buon affare per i grandi enti finanziatori ed attirare più pubblico e più capitali. Ma ciò che è importante (e non solo nel campo della musica!) è che ognuno non perda completamente la propria libertà di giudizio. Un ascoltatore indipendente e sensibile dovrebbe saper distinguere tra un bluff pubblicitario ed un grande artista, anche se quest'ultimo non ha ancora (o non ha più) un'agenzia o una casa discografica abbastanza influente da imporlo nei contesti più prestigiosi. La libertà di ascoltare e di scegliere è un diritto che, per fortuna, ancora esiste, ma non tutti lo sanno esercitare. Come? Ad esempio, approfittando dell'immensa offerta discografica di cui oggi si dispone in Italia, almeno virtualmente. Forse i negozi della nostra città non offrono una scelta di cd vasta e pluralistica, ma grazie ai rivenditori online o ai grandi distributori ognuno può ascoltare con le proprie orecchie moltissime registrazioni, anche quelle di artisti sconosciuti o bistrattati a priori. E spesso le incisioni rare sono molto più economiche di quelle maggiormente pubblicizzate, per non parlare delle ristampe di dischi d'epoca: spesso si tratta di veri tesori da riscoprire, al prezzo di 6 o 7 euro! Ciò vale anche per le occasioni di ascoltare musica dal vivo: vi sono molte piccole o medie stagioni, meno vincolate ai giri d'affari delle grandi agenzie, che invitano artisti sconosciuti o dimenticati in Italia, certamente degni di essere ascoltati almeno una volta. D'altro canto, sta proprio all'ascoltatore saper cogliere più profondamente possibile quanto comunicato dall'interprete. È noto che la musica viene percepita diversamente da ciascuno, in base alle proprie predisposizioni culturali e alla propria condizione momentanea. Ciò che più importa è che non ci siano troppi pregiudizi che falsino la percezione sonora. Ascoltare molte volte lo stesso disco, per poi usarlo come metro di valutazione per altre interpretazioni, non è forse il modo migliore per essere "liberi ascoltatori". Fare confronti è certamente utile e naturale, tuttavia è bene considerare che spesso il confronto è alterato dalle diverse condizioni d’ascolto (e, nel caso dei dischi, di registrazione e riproduzione). Il rischio di perdere la libertà di ascolto coinvolge prevalentemente chi si occupa di musica a livello professionale. Se un pianista ascolta un altro pianista, sarà facilmente condizionato anche dalle proprie abitudini esecutive, da quanto imparato dai propri insegnanti, da eventuali simpatie o antipatie professionali, e tenderà a porre dei termini di paragone tutt’altro che oggettivi. Sarà, forse, più libero nell'ascoltare un'orchestra o un cantante, non essendo in quel caso condizionato da fattori tecnici o dall'appartenenza ad una determinata "scuola". Ciò non vuol dire che l'ignoranza aiuti a recepire meglio il messaggio musicale, giacché non esiste una assoluta verginità percettiva. Tuttavia, un atteggiamento di fiducia verso ciò che propone un nuovo interprete può certamente giovare ad una migliore comprensione e ad un più profondo godimento dell'arte musicale. Un ascoltatore ideale dovrebbe inoltre saper distinguere in ogni musicista le affinità di gusto dal Talento assoluto. Il Talento è una dote che prescinde dalle scelte stilistiche o culturali dell'artista, e che consente ai fortunati che lo possiedono di emozionare realmente l'ascoltatore, di dire "la verità" in modo del tutto naturale e profondo. Purtroppo nella maggior parte dei casi il vero Talento è sostituito da una più banale professionalità, unita ad un adeguato approfondimento stilistico e supportata da accurate strategie commerciali. Se gli ascoltatori sapranno riconoscere ed apprezzare i veri Talenti, la musica avrà ancora tante belle sorprese e gioie da regalare.
Roberto Prosseda